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Perché Sgarbi ha ragione e l’Antitrust ha torto: ‘L’Opinione delle Libertà’ difende il sindaco di Arpino

In un articolo a firma di Vincenzo Vitale, il Quotidiano ‘L’Opinione delle Libertà’ di Arturo Diaconale difende a spada tratta Vittorio Sgarbi dalla tempesta mediatica che in questi giorni l’ha coinvolto fino a portarlo ad annunciare la decisione di dimettersi dopo aver ricevuto dall’Antitrust l’avviso di un’indagine in corso sull’incompatibilità tra la sua attività di Sottosegretario alla Cultura e una serie di prestazioni autonome retribuite. Riproponiamo di seguito l’articolo integrale in difesa del sindaco di Arpino.

L’intelligenza e la cultura non sono lavastoviglie e neppure frigorife­ri. Infatti, mentre questi oggetti più si usano e più si consumano, le qualità sopra indicate, a misura che vengono mes­se a frutto, si amplificano, si espandono, si approfondiscono, si raffinano, propiziando il fiorire di altra intelligenza e di altra cul­tura. Esse sono come l’amore, sono forme di amore: perché, come dell’amore ci dice la sensibilità di Stendhal, più vengono pra­ticate, meglio divengono compiutamente se stesse.

Da qui credo occorra partire per cercare di comprendere i termini della controver­sia fra Vittorio Sgarbi, da un lato, e i pen­tastellati supportati da Marco Travaglio dall’altro lato: e oggi anche dall’Antitrust che con una lunga delibera di 60 pagine ne ha dichiarato l’incompatibilità con il ruolo di Sottosegretario alla Cultura.

E occorre per il semplice motivo che il Dicastero della Cultura non serve a so­vraintendere alla amministrazione di de­naro (come quello dell’Economia), di atti­vità agricole (come quello delle Politiche agricole), di strade e di ponti (come quello delle Infrastrutture): serve a coordinare e a diffondere l’uso più ampio e articolato possibile di beni del tutto sui generis, per­ché inconsumabili come l’intelligenza e la cultura. Esiste insomma una sostanziale differenza ontologica fra i beni della vita: per gli altri Dicasteri si tratta di beni og­gettivamente attingibili e disperdibili; per il Dicastero della Cultura, invece, di beni esperibili solo personalmente e per loro natura diffusivi, appunto inconsumabili.

A partire da queste premesse forse si può meglio intendere come e quanto la delibera dell’Autorità, nel dichiarare incompatibile Sgarbi con la sua funzione ministeriale, sia incorsa in un errore tanto pacchiano quanto inscusabile: inescusabile perché – ricorda Alessandro Manzoni – essendo pacchiano, poteva benissimo esser visto da quelli stessi che lo commettevano.

Ebbene, le norme vigenti vietano a chi abbia incarichi ministeriali, a pena di in­compatibilità, di svolgere attività – anche se gratuite – che siano “professionali” e “connesse” con quelle afferenti al proprio incarico. Va ribadito: lo vietano a prescin­dere dalla circostanza che si venga retri­buiti oppure no, essendo vietate anche le attività gratuitamente rese.

Si capisce subito quale sia lo scopo, la ratio legis di questo divieto: evitare che il privato possa strumentalizzare la funzio­ne pubblica allo scopo di trarne vantaggio personale, piegandola verso i propri inte­ressi, economici o non economici (di im­magine, di notorietà, di credibilità).

Per questo motivo, chi svolga la profes­sione di avvocato, non può proseguirla se diventi ministro o sottosegretario alla Giu­stizia; chi quella di ingegnere, se diventi ministro o sottosegretario alle Infrastrut­ture; chi quella di insegnante, se diventi ministro o sottosegretario alla Pubblica istruzione.

Infatti, tutti costoro potrebbero, in astratto, piegare il ruolo pubblico rivesti­to, allo scopo di trarne vantaggi personali accompagnati o no da correlati guadagni: questo rischio (il conflitto di interessi) in tali casi appare concreto e visibile, anche nella buona fede degli eventuali protago­nisti.

Per esempio, un avvocato che sia anche sottosegretario alla Giustizia non potrà impedire – anche in perfetta buona fede – che gli giungano in studio persone che am­biscano ad essere da lui assistite, in quanto attratte dal suo ruolo pubblico.

Ora, nel caso di Sgarbi, a renderlo in­compatibile con il ruolo pubblico ricoper­to, secondo l’Antitrust, sarebbero le varie attività da lui da decenni messe in pratica e proseguite anche dopo l’incarico: presen­tazione di libri, inaugurazione di mostre, tavole rotonde su temi culturali, relazioni a convegni su autori di manufatti figurativi o scultorei ecc.

Per consentire a questa conclusione, è allora necessario verificare l’esistenza di tre elementi previsti dalla legge: che le attività da lui svolte siano “connesse” con quelle del suo dicastero; che esse siano svolte in modo “professionale”; che si rav­visi in concreto il rischio che egli, strumen­talizzando la funzione pubblica, la pieghi a vantaggi personali.

Vediamole partitamente.

1) Che quelle abitualmente svolte da Sgarbi siano attività “connesse” al ruolo ministeriale appare del tutto evidente e in­contestabile e perciò nulla quaestio.

2) Che esse siano svolte in modo “pro­fessionale” fa invece soltanto sorridere. Infatti, riesce molto difficile asserire che inaugurare una mostra di Monet, presen­tare un libro su Tintoretto, partecipare ad una tavola rotonda su Caravaggio o pro­nunciare una relazione congressuale sugli impressionisti costituisca l’esercizio di una autentica professione. Si tratta sempre e in ogni caso di attività che non saprei in altro modo definire se non come espressioni del pensiero: di quell’autentico pensiero che sempre connota l’identità di chi sappia dav­vero frequentare le dimore di quella bellez­za che, interpretata criticamente, contri­buisce in modo eminente a rendere umano il mondo. Proprio per questo, chi, come Sgarbi, si fa mediatore fra la dimensione estetica della vita – che il verso di Hölderl­in ci dice figlia degli dei – e il mondo, non svolge alcuna “professione” – cosa ridicola solo a pensarsi – ma si lascia cogliere qua­le interprete di un’autentica “vocazione”, in quanto tale libera e non programmata o programmabile. Ora, pretendere di ridurre la “vocazione” a una “professione” (al pari dell’avvocato o dell’ingegnere), nel senso voluto dalle norme sopra indicate, non solo risulta grottesco, ma anche inutile: come inutile era la fatica di quel fanciullo che, nel celebre esempio di Sant’Agostino, vole­va travasare in una buca l’acqua del mare usando una conchiglia. Né si dica che la istituzione di due società aventi scopi or­ganizzativi degli incontri e delle iniziati­ve culturali possa valere a trasformare in professione una vocazione: sarebbe come dire che siccome la parrocchia gode di una organizzazione di beni e perfino di un bi­lancio, allora il parroco, invece di esser “vocato” (che vale “chiamato”) da Dio, è divenuto un professionista del sacro: pro­vate a dirlo e tutti vi prenderebbero in giro per la vostra comica insipienza. Qui infatti oltrepassiamo la soglia del comico, perché lo statuto ontologico di una attività uma­na (professione o vocazione) non dipende certo da come la si organizzi o da quante persone servano per meglio gestirla. Per­ciò, meglio lasciar perdere.

3)Dobbiamo infine chiederci se le attività sopra menzionate siano condotte in modo da strumen­talizzare il ruolo ricoperto, pie­gandolo agli interessi privati di Sgarbi. Si badi: questo requisito non è espressamen­te menzionato dalle normi vigenti, ma ne rappresenta la stessa loro ragion d’essere, l’ubi consistam giuridico.

Ebbene, è di solare evidenza, anche per i ciechi, che Sgarbi non è divenuto ciò che oggi egli rappresenta nel panorama cultu­rale italiano grazie “anche” al ruolo politi­co ricoperto, ma che, al contrario, è stato chiamato al ruolo politico di sottosegreta­rio perché da decenni era lui, era Sgarbi.

Ciò significa che non solo Sgarbi non di­storce a fini personali la pubblica funzio­ne, ma che di fatto accade l’inverso: egli di­spiega la sua vocazione personale, finendo oggettivamente con l’arricchire e poten­ziare la funzione ministeriale, la quale te­saurizza le sue capacità, le sue conoscenze, le sue intelligenze, la sua cultura, in grazia di un circolo virtuoso per il quale ogni ini­ziativa pubblica di lui – fatta perché lui e non perché sottosegretario – riverbera a vantaggio dell’esercizio pubblico del ruolo.

Ecco perché Massimo Cacciari, sere fa, lasciando di stucco Lilli Gruber e Trava­glio, ha affermato di non capire di cosa Sgarbi possa essere rimproverato, se non di fare lecitamente ciò che ha sempre fatto. Ecco per qual motivo al principio di questa nota chiarivo che intelligenza e cultura, sapientemente dispiegate, si moltiplicano e mai si riducono per usura come gli altri oggetti del mondo. Ed ecco perché proba­bilmente Max Weber negava che quella in­tellettuale potesse esser considerata in se una vera e propria professione.

Di più. Se anche Sgarbi intendesse stru­mentalizzare il proprio ruolo per una pra­va volontà, non sarebbe in grado di farlo: le sale per conferenze e le mostre si empireb­bero di folle di partecipanti sempre e co­munque attratti dalla sua personalità cul­turale, dal suo ingegno e non certo dal suo ruolo politico. Gli appassionati in questo caso non vanno affannosamente in cerca – cosa ridicola a dirsi – di un sottosegreta­rio, ma di uno capace – per vocazione – di farsi interprete delle Muse, sia o no sotto­segretario o qualunque altra cosa.

Sgarbi non potrà mai essere incompa­tibile col suo ruolo semplicemente perché non saprebbe come fare per diventarlo: e non è certo l’Antitrust che può farlo di­venire ciò che è oggettivamente impos­sibile divenga. Sicché, se davvero Sgarbi si dimettesse, per lui nulla cambierebbe: continuerebbe a fare ciò che fa da sempre. Invece, il Ministero resterebbe irrimedia­bilmente assai più povero, tristemente in­grigito dalla mancanza di intelligenza e di cultura. Prova irrefutabile, questa, che è il Ministero, per dir così, ad “usare” Sgarbi e non il contrario. E allora?